Intervista a Mons. Aiello 

(dallo speciale di Telenostra del 26 lug 2017)

di Massimo De Vinco

Il nuovo Vescovo di Avellino, Monsignor Aiello,  illustra il suo progetto pastorale
Giornalista: Monsignor Aiello, a un mese dal suo insediamento nella Diocesi di Avellino, come va?
Vescovo: sto bene, nei termini di un viaggiatore che è ai primi passi; di un alunno in prima elementare, ma desideroso di apprendere e di guardare; di rendermi conto di ciò che la Chiesa mi ha affidato e delle persone  e delle istituzioni e delle strade e dei problemi che fanno parte di questa città e di questa diocesi.
Giornalista: abbiamo saputo che lei la mattina molto presto va in villa comunale per pregare, ma anche per avere un contatto diretto, quasi manuale, concreto, con la natura nella quiete delle prime luci del mattino.
Vescovo: Il mio rapporto, contatto, relazione con il verde è vitale. E poiché questo palazzo è bello, ma non contempla giardini, allora vado a cercare il verde nella villa comunale, perché il verde ci aiuta, ci aiuta a pensare. Passeggiare sotto gli alberi è anche un dialogo con la natura che fa bene al corpo e allo spirito.
Giornalista: a cavallo del suo insediamento, lei ha detto che gioia e dolore hanno confini incerti, citando un verso di una poesia/canzone di Fabrizio De Andrè. La gioia per nuove esperienze che si intraprendono e però anche il dolore per un intenso vissuto; un quotidiano che nel frattempo si lascia, si interrompe. In questo incerto confine si può collocare la solitudine di un pastore, di un vescovo?
Vescovo: Certamente; c’è innanzitutto la solitudine dell’uomo – ma di ogni uomo – e in particolare di chi abbia responsabilità e in qualche maniera viene un po’ relegato. Ma è una solitudine con la quale vivo in amicizia già da 11 anni quindi non mi è nuova. È un po’ – ripeto – anche la solitudine di un prete, di un parroco, ma di chiun-que abbia un minimo di responsabilità e a un certo punto deve dare un’indicazione. Indicare una direzione.
Giornalista: questa dimensione operante, interrogativa, della solitudine affiora anche nel motto che lei ha scelto per la sua ordinazione episcopale – “custos quid noctis” – la domanda che nella Bibbia Isaia rivolge alla sentinella: “quanto resta della notte?”; cioè l’impazienza, l’inquietudine, l’incertezza che si muovono sul confine tra le tenebre e la luce. Insomma, il motto episcopale è anche un manifesto programmatico di un vescovo. Noi abbiamo cercato di interpretare, però se lei ci dà la sua versione, naturalmente sarà quella più attendibile e completa.
Vescovo: Diciamo che è una traduzione, perché poi le traduzioni degli altri non è detto che siano spurie. A volte gli altri vedono in noi e di noi quello che noi non vediamo. C’è certamente questa zona di confine. Il confine tra la notte è il giorno, tra il buio e la luce; e abitare questa zona di confine credo sia la grande sfida che oggi un credente, ma anche un uomo, debba vivere. Non c’è la notte in cui diceva il filosofo tutte le vacche sono nere non c’è il giorno in cui tutto è chiaro. C’è sempre questa zona di confine, questa sorta di tramonto, dove la luce non è ancora andata via, le tenebre non sono ancora venute e dall’altra nel confine inverso, quello dell’aurora. Questa è una dimensione dell’uomo, una dimensione del credente. Nel testo di Isaia è la dimensione della fede; tra l’altro il testo continua, “se volete domandare domandate”, la sentinella è sola, ma diventa anche un punto di aggregazione per tanti che abitano la notte.
Giornalista: lei ha ricordato – sempre nel suo insediamento – che questo palazzo vescovile avrà le luci accese e questo è un messaggio diretto per dire “ci siamo” insomma la chiesa c’è il vescovo e apre le sue porte e le sue stanze alla diocesi ai ai fedeli. Come mettere insieme, monsignor Aiello, le tante istanze che si confondono si intrecciano e che vivono in grandi contraddizioni del nostro mondo contemporaneo?
Vescovo: ecco io non ritengo che queste luci accese debbano essere guardate solo da lontano, ma è anche un invito ad entrare. Ritengo che quello che noi indichiamo della casa, poi riguardi anche il cuore di una persona. Un pastore sta a guardare, un pastore apre le finestre, apre le porte, esce incontro alla sua gente, ospita. Io ho vissuto l’esperienza nella mia diocesi Teano Calvi che si intitolava “in punta di piedi in Episcopio” dove 120 persone, per due ore al mese, venivano da ogni parte della diocesi nel salone dell’episcopio che diventava un salone concerto dove alternavo meditazione a brani musicali. Era un modo da parte mia di dire “questa è casa vostra; questo palazzo ce lo ha consegnato la storia e dunque venite, sia pure in punta di piedi. Il vescovo ha qualcosa da dirvi ma anche voi avete qualcosa da portare”.
Giornalista: vengono utilizzate spesso (soprattutto da noi giornalisti) semplificazioni per collocare l’azione pastorale di un sacerdote, di un vescovo, di un cardinale, persino del Papa, le categorie. Diciamo ‘progressista’, ‘conservatore’, ‘tradizionalista’, … un po’ serve per capire e resta però una semplificazione. Qual è il punto della semplificazione che dovremmo dipanare meglio?
Vescovo: il peccato originale di questa di queste categorie, a mio parere, è leggere gli eventi della chiesa con gli occhiali della politica. E quindi questi stessi termini appartengono più al mondo politico che a quello ecclesiale e sono mutuati a volte anche all’interno del mondo ecclesiale, ma vengono d’altrove. La realtà è molto più variegata; le stagioni del grigio – ecco tra il bianco e il nero – sono infinite; per quanto i giornalisti tendono a incorniciare. Quando si è fotografato una persona, la si è fotografata in quel momento, ma un attimo dopo quella fotografia è già solo un ricordo, non è quello che la persona è nel suo mistero.
Giornalista: monsignore Aiello, lei ha ricordato con particolare affetto, monsignor Antonio Forte che è stato suo predecessore qui alla diocesi di Avellino, ma ha anche ricordato il grande esempio e la grande lezione di monsignor Raffaele Pellecchia, avellinese, vescovo di Piedimonte. Un grande personaggio che sul territorio ha tradotto con grande forza, con grande coraggio, la lezione conciliare.
Vescovo: Sì. Monsignor Forte è nel background di questa diocesi, ma anche monsignor Pellecchia. Mentre monsignor Forte è nelle vene della storia di questa diocesi, come vescovo, monsignor Pellecchia lo è come prete. Io l’ho conosciuto come vescovo, come mio vescovo, negli anni di seminario e quindi quello che ho detto nell’omelia dell’ingresso, sono ricordi vivissimi di anni meravigliosi che la diocesi di Sorrento Castellammare – allora erano due diocesi distinte – ha vissuto all’ombra di questo grande, grande anche fisicamente. Monsignor Pellecchia era maestoso, era alto e imponente anche di statura, oltre che di statura interiore.
Giornalista: gli ultimi vescovi di Avellino hanno incarnato altrettante fasi cruciali della contemporaneità di questa provincia e non solo. Penso a monsignor Guido Bentivoglio, il vescovo della guerra; penso a Gioacchino Pedicini a cavallo del Concilio, penso a Pasquale Venezia, vescovo proprio conciliare, ma anche vescovo del terremoto. Lei pensa di incrociare quale quale quale fase e di abbracciare quale fase come vescovo di Avellino?
Vescovo: Ogni parola in questo senso potrebbe essere rischiosa. Io personalmente vorrei essere un vescovo della modernità, nel senso che poi può essere presuntuoso questo che sto dicendo. Noi abbiamo sempre stigmatizzato la modernità dall’inizio del ‘900, come un pericolo, come un avversario; in realtà la modernità è l’anima inquieta del ‘900 e quindi anche del secolo che stiamo vivendo e va in qualche maniera presa per mano. Ci sono degli elementi positivi; ogni contrapposizione è sempre negativa. L’ho già fatto, l’ho già vissuto, almeno come tentativo, vorrei prendere per mano la modernità.
Giornalista: lei fa parte della commissione della Conferenza episcopale per il clero e la vita consacrata. Non so se ha visto il rapporto – l’undicesimo – della Fondazione critica liberale sulla secolarizzazione in Italia. Sono dati avvalorati anche dall’Istat: ci si sposa sempre meno con il matrimonio concordatario – quello cattolico – 235.000 nel 1994, 108.000 nel 2014; sono raddoppiati i divorzi nello stesso ventennio; i figli nati fuori dal matrimonio sono il 29% rispetto al 7,7% del 94; diminuiscono anche i battezzati: dal 92% al 76% del 2014. Questo fa dire a qualcuno che ‘non moriremo cattolici’ e lei ha sottolineato che forse il Signore da noi non vuole – dalla sua Chiesa non vuole – troppe liturgie, troppe messe cantate, quanto piuttosto di fare appunto le sentinelle che vegliano, sorvegliano le mura, custodiscono la comunità. La secolarizzazione è un grande, contemporaneo problema della chiesa di oggi.
Vescovo: intanto questo fenomeno è inarrestabile. Lo dico senza ombra di dramma; bisogna leggere gli eventi, i movimenti, con una certa oggettività, ma anche chiedersi come vivere in questo tempo. C’è delle opportunità che questi cali che lei ha indicato ci offrono. Degli assist per fare una schiacciata per dirla con il linguaggio della pallavolo; per esempio è una sfida sul piano della formazione. Noi ci siamo illusi a lungo che un cristianesimo di tradizione, di facciata, potesse reggere all’onda della secolarizzazione, ma ovviamente è stata una grande illusione.Tante cose sono cadute ma erano senza fondamento senza contenuto. Erano appuntamenti sociologici, più che spirituali. Anche tanta vita sacramentale è così. Ancora oggi. E cioè sono tappe sociologiche, ma non sono tappe spirituali. La sfida è anche per un piccolo gruppo, ma che sia lievito, di privilegiare la dimensione formativa in modo tale da essere testimonianza evidente di un modo altro di vivere. Oggi i cristiani, se uno dovesse fotografare da qualche parte i cattolici, dove sono? Magari non dobbiamo aver paura che la Chiesa possa ulteriormente ridimensionarsi nei numeri, ma aumentare di qualità. La qualità credo che sia la sfida educativa, formativa, per formare le nuove generazioni. Chi voglia corrispondergli, ovviamente, senza imporre i valori del Vangelo in una maniera nuova e moderna.
Giornalista: il pontificato di Papa Francesco, in che senso in che termini può essere definito straordinario? Per la eccezione con la quale sarà, diciamo così, non archiviato ma con la quale passerà alla storia oppure nel senso di una germinazione destinata, tra molte lotte, tra molte critiche, tra molti anche agguati, per la verità, a lasciare il segno e a germogliare a crescere?
Vescovo: Credo umilmente che il Papa Francesco abbia individuato il principio della vita. Come una dimensione da non tenere fuori la porta della liturgia, della formazione, e quindi tanti suoi interventi hanno questo comune denominatore: la vita. Sant’Ireneo di Lione in tempi tanto lontani da noi diceva gloria dei homo vivens cioè “la gloria di Dio è l’uomo vivente in quanto tale” prima d’ogni aggettivazione. E questo intercettare la vita dell’uomo con i suoi bisogni, i suoi drammi, le sue contraddizioni, questa è una strategia pastorale, è una conversione pastorale che il papa chiede. Quando si parla di uscita dal tempio, si intende questa rivoluzione copernicana all’interno della chiesa; da una chiesa che rischia sempre di autocontemplarsi e di autoincensarsi, a una chiesa che guarda il mondo. D’altra parte il Concilio a questo ha fatto attenzione.
Giornalista: l’Amoris Letizia ha provocato tanta discussione persino diciamo così una serie di dubbi certificati che alcuni importanti cardinali hanno sollevato nei confronti di Papa Francesco. La misericordia, la scommessa sull’uomo, ma non bisogna esagerare. Però un po’ tornano le cose che lei diceva prima: opporsi con la liturgia, con ipocrisia anche degli apparati, al corso del mondo non dà buoni frutti se poi i risultati sono quelli per esempio sulla secolarizzazione su altri e su altri temi.
Vescovo: Potrei dirglielo in un’altra maniera: gli interrogativi sono più importanti dei punti esclamativi. Forse si può leggere anche il magistero di Papa Francesco nel passaggio da punti esclamativi – e quindi aspetti apodittici senza discussione, che non permettono deroghe -, a punti interrogativi. L’interrogativo è all’origine della Sapienza. Ma anche Gesù pone tanti interrogativi.
Giornalista: lei ha annunciato, disegnato anche con nitidezza la chiesa di cui vuole essere pastore una chiesa che consola piuttosto che una chiesa che lancia invettive. Ha anche però ricordato di non essere venuto qui ad Avellino con i guanti e una chiesa che consola può diventare consolatoria monsignor Aiello.
Vescovo: Consolatrice è diverso che consolatoria, perché consolatoria a che vedere con l’oppio di cui parlava il vecchio Marx. Invece “consolatrice” è attraversare una difficoltà, un dolore, un dramma, aprendo una finestra sull’altrove.
Giornalista: quindi, da questo punto di vista, non c’è questo rischio della consolazione fine fine a se stessa, piuttosto la responsabilità, il peso, della parola che lei pure ha richiamato.
Vescovo: mi sembra che oggi viviamo una analfabetizzazione. Non si sa più parlare, anche perché le immagini hanno preso il sopravvento; i vocabolari si assottigliano in una maniera irriverente, anche – come dire – rispetto al dono della lingua. Penso alla lingua italiana in questo momento. Penso ai nostri giovani che fanno difficoltà; che non riuscirebbero a sopportare un periodo manzoniano, senza fare i cantori dei tempi andati. Dobbiamo tornare alla parola non come semplice forma, ma alla parola che abbia peso. Un pittore – Caravaggio – diceva: la luce pesa. Pesa anche la parola e abbiamo bisogno di parole che tornino a dire, a raccontare, per evitare il deserto.
Giornalista: che rapporto hai con i social media?
Vescovo: pessimo. Mi salva la lettura, in particolare dei romanzi. Sono una passione da sempre, sono un lettore di romanzi contemporanei. Seguo dei filoni per capire quello che sta accadendo. I romanzi, tutta la letteratura, da un lato legge e da un lato anticipa. Quindi è questo, diciamo, la finestra che io da sempre prediligo e la lettura dei romanzi è anche legata poi a questa familiarità con la parola e con la lingua che va evolvendosi e che mentre si confronta con i grandi autori, dall’altra ha anche nuove forme.
Giornalista: e poi c’è la musica, monsignore Aiello, il pianoforte, ma anche la chitarra …
Vescovo: soprattutto la chitarra. Nasco come chitarista; poi mi sono dato al pianoforte più per motivi liturgici. In particolare la guida agli esercizi fin da giovane, ma io nasco come un chitarrista, anche se oggi tanto tempo non c’è. Questo mi aiuta. Anche questo è una finestra: cosa dicono oggi i cantautori, cosa esprimono della vita, quale disagio, quale idea di bellezza, di felicità e a mettersi in ascolto. Noi quando ascoltavamo De André, pensavamo che erano così delle canzonette. “Sono solo canzonette”diceva Bennato in tempi rivoluzionari. In realtà quei cantautori/poeti, hanno dato un apporto alla letteratura perché sono stati veicolo della comprensione di un tempo.
Giornalista: Si. Nelle università anche italiane si studiano i Beatles, si fa l’analisi del testo di Eleanor Rigby che è un grande testo molto evocativo, molto importante, come Fabrizio De Andrè. Lei ha spiazzato un po’ tutti perché ha ricordato per esempio anche Lucio Battisti e quindi da questo punto di vista si conferma la sua passione per le arti, per la musica, ma anche per il significato che queste poi hanno dentro la contemporaneità e non solo nella contemporaneità.
Vescovo: bisognerebbe tendere – sul piano didattico si parla di ipertesto – a un messaggio veicolato dalla parola che è il mezzo più debole, è il figlio debole della comunicazione. Oggi la musica è l’immagine e quindi quando in un testo lo stesso messaggio è veicolato dalla parola, dalla musica e da un’immagine è un testo potenziato per questo gli esperti parlano di ipertesto, un testo di tutto rispetto.
Giornalista: … ringraziamenti …
Vescovo: Io ho un sogno, che è quello di poter tenere per mano ma nel senso non paternalistico questa città e quindi domani (rito del pannetto) guardo. Guardo questa ritualità del pannetto; guarderò le celebrazioni legate intorno alla solennità dell’Assunta per imparare.
Sono qui anche come uno scolaro. Prima elementare.