Lc 11, 1-13 Padre nostro

Gesù insegna a recitare una preghiera di poche parole, il Padre nostro. Spiega che non ne servono tante, perchè Dio già sa quello che la persona in preghiera ha in animo di chiedere.
La preghiera allora non serve a portare una richiesta a conoscenza, ma a rivolgersi, a dare il tu alla divinità. Perciò Gesù insegna che la preghiera non è un chiedere, ma sporgersi su Dio, chiamandolo Padre nostro.
Nell’ ebraico, a lui familiare, Padre nostro si dice avínu, e Isaia la rivolge a Dio come reclamo e recriminazione nel capitolo 63 del suo libro. Il profeta protesta contro Dio che indurisce i cuori e li distoglie dal timore. Lo invoca cosi: “Perchè tu sei nostro Padre, perchè Abramo non ci ha conosciuto e Israele non ci riconoscerà: tu Iod/Dio sei nostro Padre, nostro riscattatore da sempre è il tuo nome” (Isaia 63,13).
Isaia spiega che i padri sono lontani nel tempo, Abramo e Giacobbe, detto Israele, non conoscono la loro discendenza. Sono padri di nome, ma di fatto il solo padre vivente è Dio. Tu sei nostro Padre: Attà avínu, e quel tu, attà, in apertura di frase è un dito puntato. Tu sei: non è più invocazione, ma legittima istanza legale: noi siamo tuoi figli, tu non puoi abbandonarci, non sei libero di farlo.
Ancora più forte è la seconda metà del verso, dove il tu, attà, precede addirittura il nome di lod/Dio: “Tu sei lod/Dio nostro Padre”.
Questa è dunque la nostra rispettiva posizione davanti alla tua stessa legge.
Il compito di tutela è dato dal termine legale: Goalénu, riscattatore nostro, che chiude il verso: “Riscattatore nostro da sempre è il tuo nome”.
Isaia dice che Dio è colui che paga il riscatto per rendere liberi. Dice che quello è il suo nome, non un attributo, un predicato tra i tanti, ma il sostantivo che assegna a un padre un compito verso i figli.
Padre nostro significa ricordare a Dio questo vincolo di tutela che un giorno si è assunto. Isaia lo illustra materialmente con un altro verso in cui spiega: “Nostro padre sei tu, noi siamo l’argilla e tu il nostro vasaio”. Niente di meno di questo noi siamo: un manufatto di terra e di cura di Dio.
Quando la persona di fede torna a invocare il Padre nostro che è nei cieli, oltre al dovere ha anche il pieno diritto di rivolgersi a lui così.
Ho ri-conosciuto il volto di mio padre
A volte vedo la faccia di mio padre affacciarsi sopra quella di un passante, prenderla a prestito per farmi un saluto, poi sparire, incerto se io abbia inteso. Intendo sempre. Ogni suo saluto contiene un perdono. Da imperdonabile, lo posso accettare solo da lui.
Una volta durò più a lungo. Ero alla stazione di Bologna, di sera, in attesa di un treno.
Acquistata una fetta di pizza mi ero seduto. Lo vidi entrare, sgualcito ma con sforzo di decoro. Andò da un cliente a chiedere qualcosa, quello negò. Si sedette allora da solo. Mi alzai dal mio posto e mi accostai. Chiesi permesso di sedere, me l’accordò distratto. Lo guardavo: era lui, ma scontento di vedermi. Nel sogno i nostri incontri sono migliori. Quella era una mensa di stazione. Gli chiesi se accettava senza offendersi del denaro da me. Non disse una risposta. Sfilai piano dal portafoglio la banconota di più alto valore, la tenni coperta nella mano per non manifestarla. La sfilò di lì con una mossa svelta evitando di toccarmi. Poi si alzò, uscì, vidi le spalle affaticate, la nuca inconfondibile. Non gli avevo chiesto il nome, tanto non me l’avrebbe confessato che era Aldo, mio padre, conosciuto fino in punto di morte.
Un’ altra volta l’ho visto in un detenuto di Regina Coeli, assai più giovane di me. Era per me un incontro, scrittore invitato a raccon- tare qualcosa a chi aveva molto tempo per ascoltare. Lui era romano, di una borgata che conoscevo bene.
Aveva il cranio di mio padre ma con tutti i capelli. L’ho guardato pensando così eri prima del mio ricordo, perchè sempre t’ho visto stempiato. Così eri nelle fotografie prima di me. Ho saputo che aspettava di uscire da un mese all’altro. Ho parlato nel modo piu schietto, per farmi intendere senza sforzo di lingua, come sul cantiere. Nel saluto la sua stretta di mano era diversa, il sorriso invece era il suo. Più di tutto mi manca la sua mano, le dita sul cucchiaio, il palmo intorno al bicchiere.
Racconto queste cose a voi che siete in cerca del volto di Gesù, perchè credo che a voi si manifesti spesso, come a me mio padre. A voi però succede qualche volta di non riconoscerlo al volo. Ed è peccato, perchè le facce vanno intese al volo. Vi racconto perciò un’esperienza fisica, nient’affatto spirituale, come fu fisica l’esperienza di Gesù da parte dei contemporanei, grati per guarigioni o nemici per partito preso.
Di solito è credenza che l’ombra segua il corpo, ma è una convenzione. Se la luce è alle spalle di chi cammina, l’ombra s’allunga davanti e precede i passi. Voi che siete persone di fede siete accompagnate da un supplemento d’ombra.
Quando vi appare d’ improvviso il volto che cercate, vi abbaglia e ve ne difendete. Lasciatevi per un breve tratto guidare da un cieco di fede che ha come tutta certezza la convinzione di riabbracciare suo padre. Non importa se dopo la morte, mi basta anche durante.
Allora in attesa del volto indagato, fate caso al musulmano, in cui è più facile incontrarlo. Perciò gli amici e le guide dei convogli di aiuti in terra e guerra di Bosnia andavano da loro, dai musulmani più che dai fratelli di fede cattolica. Per ansia di scorgere il saluto dei più deboli, che stava apparecchiato in una stretta di mano annerita, in una corsa di bambino verso lo sportello per una caramella, in una donna che aspettava la grazia di un barattolo con un fazzoletto in testa. Io riuscivo a vedere la pelle appassita dalla fame, l’immensità del bianco dentro occhi che chiedono e che per misura di vergogna trattengono la mano.
Gli amici del convoglio scrutavano invece in quelle fattezze ciglia, narice, orecchio, ruga, labbro, insomma indizi della loro creatura preferita, il Gesù sconosciuto, quello di prima che si rivelasse, cinque minuti prima del battesimo, della quarantena nel deserto o del traffico delle giare a certe nozze. Prima del passo che scaraventava la sua vita dentro quella di tutti, finchè era ancora sua e poteva stare anonima nel volto di ciascuno. Tu che cerchi quel volto guarda nel musulmano. Poi perlustra un ospizio dove i figli depositano padri e madri e si fanno orfani di loro in vita. E li vanno a trovare, se ci vanno, una volta per anno come al giorno dei morti. Poi cerca nel mercato all’ora di chiusura quando una sporta fruga nello scarto, poi nelle segnaletiche delle prigioni, lato frontale, di fianco, impronta di pollice e indice. Poi guarda la nuvola che va per il cielo sotto il mantice del vento e naviga sul mondo in cerc di una terra da cui farsi mungere, sì, guarda pure la nuvola, sii visionario di volti, scopritore della continua apparizione del desiderato.
E poi rispetta pure i volti chiusi, le maschere, le facce dietro il velo, quelle di Auschwitz-Birkenau che tentavano di superare la selezione spegnendo l’identità, simulando l’automa per non darsi rilievo, per non uscire dai ranghi. Rispetta i volti chiusi e i perforati, perseguitati da trafitture come san Sebastiano alla colonna. Chi spediva profeti, ha smesso da gran tempo. Ora scrive sull’alfabeto delle facce. Siamo miliardi per questo, siamo il seguito di un’antica stesura di parole ultime.
In ebraico, lingua intima della rivelazione, la faccia è plurale: ogni volto è multiplo, difettivo di singolare. Ognuno è molti volti, lo so da mio padre chesi affaccia da varie fattezze. Perciò il volto che aspetti è sparso: piglia il naso muso camuso dell’africano, il taglio delle palpebre asiatiche, i capelli lisci dei pellerossa, il sorriso della mulatta. Gesù è meticcio. Nella sua discendenza, scrive Matteo in apertura di Nuovo Testamento, c’è Tamar, cananea, maestosa di frutto come annuncia il suo nome che indica l’albero della palma, e ce Rut di Moàb bella fin da lontano perchè la bellezza non è un addobbo, ma la sostanza stessa della vita. Nella più sacra discendenza, quella del messia, non c’è purezza sangue. La “limpieza de sangre”, l’ubriacatura ispanica contro il consanguineo parente in Abramo, contro l’ebreo e l’ismaelita, poggiava su una menzogna. Tamar e Rut dimostrano che il messia è innestato.
Ovunque hai da cercarlo, non salire su un monte di vedetta, non da una torre lo vedrai venire, ma nel fitto delle moltitudini lo potrai afferrare: col tumulto degli occhi, con la carezza del cieco, quando sarai seduto e lui all’impiedi, quando sarai distratto e lui avrà un violino di riconoscimento, un’ armonica a bocca al posto di campane. Sputerà sulla mano che stringe una pala e tu sentirai all’improvviso il bisogno di chiedergli un po’ di quello sputo per la tua piaga, quando sarai nell’ira, quando balbetterai, quando avrai febbre, quando sarai in amore e infine non ci sarà per te altro quando, eccolo dirimpetto a te, arrivato in ritardo eppure in tempo ancora, perchè lui è l’ultimo e tu sei un resto, un racimolo sul campo, bisognoso di essere raccolto.
Erri De Luca


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